Zinco e depressione

 

 

GIOVANNA REZZONI & LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 17 ottobre 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVE AGGIORNAMENTO]

 

La depressione è uno stato mentale, una condizione di vita, una diagnosi psichiatrica ed un’alterazione funzionale del cervello e di tutto l’organismo. È varia per forme, gravità e durata, tanto da non poter essere considerata un’unica entità, ma piuttosto un insieme di disturbi accomunati da una tipologia di esperienza soggettiva e da alcune costanti in termini di fenomenologia neuropatologica e clinica. Anche se l’evidente riduzione di energia dei pazienti depressi e le terapie volte ad accrescere i livelli di serotonina e di altre amine biogene possono far pensare ad uno stato dovuto a carenza di elementi essenziali per la fisiologia cerebrale, la depressione non si presta ad essere accostata ad un disturbo carenziale, ma può essere più scientificamente attribuita ad un cambiamento di registro funzionale dell’encefalo e, conseguentemente, di tutto l’organismo[1]. In ogni caso, il ruolo eziopatogenetico dello stress cronico e predisponente di fattori genetici ed epigenetici è dimostrato da molto tempo, anche se la realtà è straordinariamente complessa, tanto da includere insospettati fattori neuroanatomici macroscopici, come riportato in un nostro recente aggiornamento[2], e da indurre vari gruppi di ricerca a studiare la depressione come malattia infiammatoria[3].

Lo zinco è diffusamente presente e fisiologicamente importante nei tessuti del nostro corpo e in quelli della maggior parte degli organismi animali; l’interesse delle neuroscienze di base è principalmente focalizzato su questi due aspetti: 1) in generale sul suo ruolo nella funzione sinaptica; 2) sulle forme reattive del metallo diffusamente presenti nei terminali assonici all’interno delle vescicole sinaptiche, dove si è rivelato cruciale per la segnalazione neuronica. Tanto nello sviluppo embrionario quanto nell’età adulta, lo zinco al livello cellulare è sia un modulatore dell’attività sinaptica che della plasticità neuronica. La fisiologica omeostasi dello zinco implica l’intervento di varie proteine di trasporto, tipo importer e transporter, fra le quali ZnT-3 sembra essere la molecola principale nel cervello. Alterazioni dello status dello zinco sono state associate a numerosi disturbi neurologici.

L’associazione di bassi livelli di zinco alla depressione non è nuova, ma solo di recente l’indagine sperimentale ha raggiunto una dimensione rilevante e dei risultati significativi. D’altra parte, l’interesse per il ruolo dello zinco nella patologia neurologica è cresciuto notevolmente in questi ultimi anni. Basti pensare all’impiego efficace di supplementi di zinco nel trattamento delle lesioni del midollo spinale[4], ai deficit nella malattia di Alzheimer[5], alla rottura dell’omeostasi del catione nella patogenesi della demenza[6] e della patologia neurodegenerativa[7].

Per riflettere su quanto realmente emerso dalla ricerca sul rapporto fra difetto di Zn e sviluppo di disturbi depressivi, adotteremo come riferimenti-filtro un’elaborazione meta-analitica condotta su 17 lavori di ricerca indipendenti ed una rassegna esaustiva dei principali studi sul ruolo dello zinco nella patologia cerebrale, e poi considereremo i risultati sperimentali più recenti.

Un team di ricercatori del quale fa parte Krista L. Lanctôt, docente di psichiatria e neuro-psicofarmacologia del sistema nervoso centrale presso l’Università di Toronto (Canada), il cui lavoro è da noi seguito con attenzione, ha realizzato una meta-analisi di 17 studi precedenti, che è stata pubblicata su Biological Psychiatry nel mese di dicembre del 2013. L’analisi dei dati mostra  concentrazioni di zinco più basse nel sangue dei pazienti diagnosticati di disturbi depressivi. In particolare, confrontando il tasso ematico medio del metallo delle persone non affette con quello delle persone che presentavano gradi o forme diverse di depressione, è stato rilevato che queste ultime tendevano complessivamente a valori di circa il 14% in meno. I pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore, poi, avevano tendenzialmente livelli di zinco più bassi di quelli diagnosticati di un disturbo più lieve.

Un elemento di estremo rilievo per comprendere il valore e il potere suggestivo di questi dati è la concentrazione fisiologica del metallo nei neuroni glutammatergici.

Le cellule nervose che segnalano mediante glutammato costituiscono il tipo di neuroni eccitatori più importanti nell’encefalo dei mammiferi e nel cervello dell’uomo in particolare; tali neuroni, concentrati nella corteccia, nell’ippocampo e in molte aree grigie sottocorticali, accrescono l’attività cerebrale nel suo insieme e svolgono un ruolo di fondamentale importanza nella neuroplasticità. Proprio le connessioni dell’ippocampo ci danno un’idea del ruolo cruciale della neurotrasmissione basata sul glutammato. Gli assoni provenienti da neuroni della corteccia entorinale entrano nel giro dentato come via perforante, così detta perché attraversa la fessura ippocampale e sembra perforare il giro dentato, e formano sinapsi glutammatergiche con i granuli o cellule a granulo, i cui assoni - detti fibre muscoidi - formano a loro volta sinapsi glutammatergiche con i neuroni piramidali della regione CA3 dell’ippocampo[8]; tali cellule piramidali inviano i loro cilindrassi al setto attraverso la fimbria, e i rami collaterali - i celebri collaterali di Schaffer - alla regione CA1, dove formano giunzioni ancora una volta con il glutammato quale neuromediatore. Accanto a questa via multisinaptica dalla corteccia entorinale alla regione CA1, vi è una via diretta dai neuroni del III strato della corteccia entorinale ai neuroni piramidali di CA1, i cui neuriti escono dall’alveo dell’ippocampo e proiettano prevalentemente al subiculum e solo in parte al setto dove formano, anche qui, giunzioni contenenti l’aminoacido bicarbossilico. In tutte queste sinapsi può facilmente essere indotto il potenziamento a lungo termine (LTP), importante base cellulare della memoria.

A ciò si aggiunga, più in generale, che i neuroni glutammatergici abbondano nei circuiti che mediano le funzioni cognitive e le principali manifestazioni dell’affettività connesse con il tono dell’umore[9].

Date queste premesse, alle quali si possono affiancare i risultati di studi animali che hanno dimostrato una riduzione, grazie all’assunzione di zinco, della sintomatologia depressiva artificialmente indotta, si comprende l’avvio di indagini volte ad accertare un eventuale ruolo causale della carenza del metallo.

Vashum K. P. e colleghi del Centro di Epidemiologia Clinica e Biostatistica della Scuola di Medicina dell’Università di Newcastle in Australia, rilevando la mancanza di studi longitudinali su uomini e donne, hanno sfruttato l’Australian Longitudinal Study on Women’s Health (donne dai 50 ai 61 anni) e l’Hunter Community Study su uomini e donne dai 55 agli 85 anni, per investigare lo zinco alimentare e il rapporto zinco/ferro quali indicatori nella previsione dello sviluppo di depressione, in due estesissimi osservatori diacronici della popolazione australiana di età media ed anziana. I risultati, pubblicati nel settembre del 2014[10], dimostrano un rapporto inverso fra rischio di depressione e quantità di zinco assunto con gli alimenti, anche dopo le correzioni apportate per escludere eventuali fattori interferenti. In particolare, comparando le persone con l’apporto dietetico più basso con quelle con l’apporto più elevato, si poteva calcolare una riduzione del rischio di depressione in queste ultime del 30-50%. Entrambi gli studi, invece, hanno escluso un ruolo della ratio Zn/Fe nell’accrescere il rischio di depressione.

Come più sopra annunciato, consideriamo ora la rassegna di lavori sperimentali sul ruolo dello zinco nei disturbi neurologici e psichiatrici, condotta da Atish Prakash, un ricercatore in attività post-dottorato, con colleghi del Dipartimento di Farmacia della MARA University of Technology in Malesia[11]. La review, pubblicata nel mese di aprile 2015, riporta e commenta risultati che implicano fondatamente lo zinco in una vasta gamma di disturbi neurologici e di interesse psichiatrico: 1) alterazioni dello sviluppo cerebrale; 2) disturbi dell’umore e dell’affettività inclusa la depressione; 3) malattie neurodegenerative con differente patogenesi, quali: malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, malattia di Huntington, sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattie da prioni; 4) lo zinco è stato implicato nei processi di danno neuronico associato con le lesioni traumatiche dell’encefalo, con l’ictus cerebrovascolare e con i disturbi epilettici.

Dalla rassegna di tutti questi studi emerge la necessità di approfondire la conoscenza, ancora limitata, dei meccanismi che controllano l’omeostasi dello zinco, per poter comprendere esattamente a quale livello della sequenza di eventi patologici e con quale ruolo si collocano le alterazioni di questo metallo; solo tale conoscenza consentirà di elaborare con fondatezza scientifica strategie di prevenzione e terapia. Di opinione lievemente diversa o, diremmo, meno prudente, almeno per ciò che concerne il ruolo dello zinco nella depressione, sembra essere proprio Atish Prakash, che ha recentemente dichiarato a Tori Rodriguez: “Il futuro trattamento della depressione è il solfato di zinco”[12].

Un mese dopo la rassegna di Prakash è stato pubblicato il primo studio che ha indagato gli effetti diretti del solo zinco sulla sintomatologia depressiva. Infatti, in precedenza era stata sperimentata la somministrazione di supplementi di zinco associata a trattamento farmacologico antidepressivo, rilevando un aumento degli effetti positivi dei farmaci, ma, a conoscenza degli autori dello studio e delle autrici di questo breve aggiornamento, non era mai stata sottoposta a vaglio sperimentale la zinco-monoterapia. Zahra Solati e colleghi si sono prefissi lo scopo di verificare, mediante uno studio in doppio cieco, randomizzato contro placebo, gli effetti dello zinco sui sintomi depressivi e sui livelli di BDNF (brain derived neurotrophic factor) in persone obese o in sovrappeso[13].

In breve, 50 persone in eccesso ponderale o francamente obese sono state assegnate casualmente ad uno di due gruppi sperimentali per l’assunzione quotidiana di 30 mg di zinco o di un placebo per 12 settimane. La valutazione psicodiagnostica è stata obiettivata mediane l’uso della scala BDI II (Beck Depression Inventory II), impiegata per la determinazione delle condizioni iniziali e dopo la sessione sperimentale. La misura dei livelli serici di BDNF è stata effettuata mediante ELISA (enzyme-linked immuno sorbent assay), mentre il rilievo di quelli di zinco ha richiesto la spettrometria ad assorbimento atomico. I risultati, caratterizzati dalla riduzione dei punteggi alla BDI II e dall’innalzamento dei livelli di BDNF, consentono di concludere che la monoterapia con zinco migliora l’umore in persone sovrappeso e obese, molto probabilmente mediante l’innalzamento dei livelli di BDNF.

Il rigore scientifico impone la precisazione che l’effetto positivo sulla sintomatologia depressiva ottenuto dalla somministrazione di Zn, si sia avuto in persone in eccesso ponderale. Il fatto di per sé non vuol dire nulla; tuttavia, si potrebbe obiettare che l’esperimento non è stato compiuto su un campione significativo della popolazione dei depressi in generale. Sarà perciò necessario attendere gli esiti di altri studi randomizzati in doppio cieco - anche zinco contro farmaco[14], oltre che contro placebo - con partecipanti selezionati in base a criteri di maggiore significatività.

Proseguendo nella discussione, un aspetto da non trascurare riguarda le attuali conoscenze sulla fisiologia e sulla patologia legate allo zinco, a proposito delle quali si dispone di una grande mole di dati, che però non sono mai stati sistematizzati per l’insegnamento nelle scuole mediche, essendo l’argomento in proporzione poco rilevante. Non ci sentiamo di condividere la certezza di Atish Prakash sul solfato di zinco come futuro trattamento principale delle sindromi depressive, anche perché si conoscono effetti negativi da eccesso di zinco che potrebbero verificarsi alle dosi verosimilmente efficaci, se protratte per la consueta durata delle terapie antidepressive[15].

Non è facile fare previsioni, perché finora il ruolo dello zinco è stato studiato, oltre che in processi biologici di base, solo in rapporto a particolari patologie e condizioni di interesse medico. È noto, infatti, che deficit di zinco si rilevano nel diabete, nell’alcoolismo, in disturbi dell’apparato gastro-enterico, in gravidanza e nell’allattamento. Alle persone appartenenti a queste categorie possiamo aggiungere i vegetariani, inclusi coloro che adottano diete arbitrarie prive di carne per dimagrire, che sono particolarmente esposti al rischio di carenza di zinco da ridotto apporto alimentare. In proposito, è lecito chiedersi: è maggiore fra costoro l’incidenza di disturbi depressivi? Anche una risposta positiva non consentirebbe però di attribuire la causa al difetto del metallo, visto il numero di altri possibili candidati, inclusa la presenza di un vissuto di privazione legato al regime dietetico, che in alcuni genera ansia e abbassamento del tono dell’umore.

In conclusione, se da un canto non si può negare che il deficit di zinco produca un effetto depressivo correggibile ristabilendo i livelli fisiologici del metallo, dall’altro non si hanno ancora elementi circa il suo ruolo nella patogenesi della depressione, e sarà necessario indagare i meccanismi molecolari, come quello ipoteticamente legato al BDNF, per disporre di solide basi biologiche sulle quali fondare la sperimentazione terapeutica.

 

Le autrici della nota ringraziano Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni & Ludovica Roversi Poggi

BM&L-17 ottobre 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Con l’alterazione di specifici parametri spiegata dallo studio dei singoli meccanismi. Si ricorda, di passaggio, che la concezione della depressione in termini di cambiamento di registro funzionale dell’encefalo e di alterazione che riguarda tutto l’organismo è stata formulata per la prima volta da Giuseppe Perrella all’inizio degli anni Ottanta.

[2] Note e Notizie 11-04-15 Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione.

[3] Note e Notizie 13-06-15 Infiammazione da depressione e rischio cardiovascolare.

[4] Wang Y., et al., Med Hypotheses 77 (4): 589-590, 2011.

[5] Brewer G. J., et al., Biofactors 38 (2): 107-113, 2012.

[6] Kawahara M., et al,. Metallomics 6 (2): 209-219, 2014.

[7] Szewczyk B., et al., Front Aging Neurosci. 5: 33, 2013.

[8] Ricordiamo che l’abbreviazione acronima CA sta per Cornu Ammonis (Corno d’Ammone) nome anatomico latino dell’ippocampo propriamente detto.

[9] L’importanza dei sistemi glutammatergici nelle psicosi e nella depressione è un concetto introdotto e promosso nella didattica da membri della nostra scuola neuroscientifica da decenni (molto tempo prima della fondazione della nostra società), a fronte dell’interesse ancora prevalentemente concentrato su sistemi neurotrasmettitoriali (dopamina, serotonina, ecc.) target dei farmaci maggiormente prescritti in tutto il mondo. Solo di recente sono stati introdotti farmaci agenti sul sistema glutammatergico in psichiatria.

[10] Vashum K. P., et al., Journal of Affective Disorders 166: 249-257, 2014.

[11] Prakash A., et al., Fundamental & Clinical Pharmacology 29 (2): 131-149, 2015.

[12] Rodriguez T., Linking Zinc to Depression. Scientific American MIND 25 (5): 14, September/October 2015.

[13] Solati Z., et al., Nutritional Neuroscience 18 (4): 162-168, 2015.

[14] Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina che costituiscono lo standard di riferimento.

[15] Naturalmente, anche la nostra preoccupazione circa effetti da sovradosaggio sarà da valutare e rivedere alla luce di studi più approfonditi e specifici al riguardo.